Zoara sollevò lo sguardo verso la Luna osservandola per lungo tempo, quindi riportò la sua attenzione sul puntino luminoso del pianeta cui era votata e ne valutò l’angolo che formava con il nostro satellite e l’orizzonte. Il suo occhio era, ormai, in grado di stabilire con assoluta certezza il preciso istante in cui dare inizio al rito, osservò ancora la ragazza che ne aspettava, trepidante, la conclusione, poi chiuse gli occhi contando mentalmente i minuti che ancora la separavano dal perfetto allineamento cercando di liberarsi da ogni pensiero estraneo ed impuro. Una sola distrazione, un solo pensiero non consono alla grandiosità del momento, qualsiasi sentimento negativo come l’egoismo, l’egocentrismo, la superbia, l’invidia o l’odio, potevano vanificare tutto e trasformare un operazione di luce in un trionfo del male. Era pericoloso il cammino che stava per intraprendere, ma grazie all’umiltà innata nella conoscenza, sapeva di riuscire. Una conoscenza vissuta, una conoscenza cosciente, non una semplice memoria di dati o cognizione di fatti.
Beatrice, intimidita dall’atmosfera surreale, osservava rapita la figura stagliata contro la luce lunare della donna.
Vestita di una tunica bianca in seta, molto trasparente, ornata di fili d’oro che le scivolava da una spalla scoprendo in parte il seno, Zoara stava al centro del cerchio di pietre e querce, dove solo lei poteva entrare. Portava sul capo, trattenuto da una corona ornata di perle, un velo bianco finissimo che non riusciva a trattenere i suoi lunghi capelli rossi.
Zoara brandiva con la mano destra uno specchio e quando la muoveva l’anello d’oro con incastonata una perla mandava dei riflessi caldissimi. Con la sinistra, invece, teneva un pettine mentre si avvicinava alla brocca di vino appoggiata vicino al turibolo dove ardevano le braci.
La luna le era chiaramente amica se con i suoi raggi disegnava la perfezione del corpo. Si muoveva leggera con movimenti lenti e sensuali, a piedi nudi sull’erba. Beatrice capiva che la donna stava per entrare in comunione con il tutto raggiungendo uno stato di completa estraniazione dal corpo.
Nell’aria fresca del bosco, i capezzoli di Zoara segnavano il tessuto premuto dal vento contro di lei, si capiva che era completamente nuda, sotto, dal piccolo rilievo all’altezza del pube, era bellissima pensava Beatrice. Sentiva che se fosse stata bella come lei non sarebbe dovuta ricorrere alle sue conoscenze per risolvere il problema che l’opprimeva.
Nel frattempo Zoara lasciò cadere sulle braci una manciata di una sostanza che emise un fumo terribile, ma molto profumato; chiuse gli occhi ed aspirò più volte quella suffumigazione, quindi si ritrasse dalla colonna di fumo e disse:
– Ti sia benigno Iddio, o Venere, tu che sei Signora della sorte. Fredda e umida, pura e bella, ben odorata e piacevolmente ornata. Tu che ami l’amore, le feste, gli ornamenti, la bellezza e la raffinatezza e la buona musica …
Beatrice ascoltava quell’invocazione, pur sapendo che il suo ruolo era solo passivo non voleva perderne un gesto o una parola. Il riferimento all’amore, però, la distrasse. La sua mente vagò alla ricerca dei più bei ricordi di Bertrand, il suo promesso e già amato sposo, partito al seguito di Filippo l’Ardito, conte di Borgogna, nella speranza di conquistarsi un pezzo di terra in quel nascente stato così promettente. Nato bene, ma non primogenito, sperava in quel modo di ottenere una qualche proprietà in cambio dei suoi servizi. Lei non capiva quella bramosia, la sua dote era più che sufficiente a loro due ed ai figli che sarebbero potuti nascere dalla loro unione. Inoltre il suo castello da tempo reclamava una forte presenza maschile dopo la morte di suo padre, necessitava di un uomo in grado di affrontare i tentativi, più o meno leciti, d’espansione dei signorotti confinanti
Non accettava il suo presunto orgoglio, credendolo sintomo d’indecisione o paura verso il matrimonio, per questo si era rivolta a Zoara. Non una maga, ma una filosofa esperta in quelle materie che riuscivano ostiche a moltissimi uomini. La sua conoscenza e il conseguente potere avevano origini più antiche di quel potere che le aveva strappato il suo amato per portarlo in guerra, per questo era sicura del buon risultato.
Intanto lei continuava la sua preghiera:
– …questi sono i tuoi naturali effetti. T’invoco in tutti i tuoi nomi: Zoara in arabo, Venere in latino, Anyhyt in fenicio, Admenita in greco, Sarca in indiano. – lei pronunciava questi nomi con un misto di rispetto e ammirazione, prima di gettarsi a terra rivolta verso il pianeta che portava il nome della dea, disse ancora – Ti scongiuro inoltre per Beytel, l’angelo che sta al tuo fianco per realizzare pienamente le tue forze.
Rialzatasi getto altro materiale sulle braci per incrementare il fumo che saliva al cielo, prese tra le mani il ciondolo che aveva realizzato e lo alzò verso il pianeta.
Beatrice seguiva con vivo interesse l’operazione che stava per giungere al termine e Zoara era completamente concentrata ora che aveva raggiunto il culmine del rito, quindi le due donne non poterono cogliere la variazione nei lievi rumori del bosco. Un silenzio improvviso si era fatto intorno a loro, sia i predatori notturni sia gli insetti tacevano come rispettosi verso la grandezza dell’opera che si stava compiendo. In realtà gli animali erano stati disturbati da una presenza estranea al loro mondo. Se le due donne erano riuscite ad integrarsi alla perfezione nell’ambiente, tranquillizzando gli abituali abitanti del bosco, il gruppo di uomini armati al seguito del frate Domenicano si muoveva goffo e rumoroso. Non tanto, però, da farsi scoprire dalle due donne.
– Magister, i miei uomini sono pronti ad intervenire. – disse il capitano rivolto al frate.
– No! Dica loro di accerchiare la radura, ma senza farsi scorgere. Voglio assistere sino alla fine di questa immonda commedia in modo da raccogliere tutte le prove necessarie sulla colpevolezza di quella donna. – ordinò il Domenicano.
– Come lei ordina, Magister!
L’uomo raggiunse il drappello armato e dispose i suoi uomini come richiesto, poi cercò con lo sguardo il frate ma non riuscì più a trovarlo nell’oscurità. Temendo che si fosse addentrato da solo nel bosco e conscio dei pericoli della selva s’affanno a cercarlo.
– Capitano, si muove come un orso gravido! Faccia attenzione o ci farà scoprire!
La voce dell’inquisitore lo colse di sorpresa provenendo dalle sue spalle. Il frate si stava avvicinando alla radura silenzioso. Il militare non poté che ammirare l’abilità di quell’uomo in grado di muoversi nella selva come un animale. Qualcosa nella sua mente iniziava a dirgli che non era uno dei soliti inquisitori, armati solo della propria fede e della conoscenza; di certo non aveva sempre fatto il frate nella sua vita, lo aveva capito da come aveva valutato l’armamento del drappello prima di intraprendere quell’impresa. Non si sarebbe stupito di vederlo brandire con abilità una spada in un duello contro il maligno stesso. Sorrise, quel frate gli piaceva e gli infondeva fiducia, una naturale intesa era nata tra di loro: l’intesa che nasceva solo tra uomini d’arme.
Il Domenicano raggiunse il cespuglio immediatamente prospiciente la radura e si mise all’ascolto. Subito riconobbe nelle parole della donna le frasi di quel libro che lui stesso aveva fatto bandire dopo averlo studiato in dettaglio alla ricerca delle ignobili eresie in esso contenute. La donna stava chiaramente rivolgendo le sue preghiere ad una divinità pagana, citandola con i suoi nomi nelle lingue arcaiche come antico era il suo culto. Zoara, Anyhyt, Affludita, Admenita e Sarca non erano altro che i diversi nomi, nella varie lingue, con cui era chiamata la falsa divinità identificata con il pianeta Venere. Il frate rabbrividì a quella sequenza di nomi, conosceva il potere che quelle menti deviate, a suo parere, attribuivano al Nome, alla parola o meglio alla sequenza di suoni che la componeva. Preso dai questi pensieri e perso nei ricordi del tempo passato su quel libro si ritrovò a cantilenare nella mente un’altra sequenza di nomi per lui più musicali: “Marech, Baharam, Barit, Hanez, Ebahaze … Marte”. Era come se la sua mente si fosse sdoppiata, mentre la parte razionale seguiva le mosse della donna per trovare in esse i futuri capi d’accusa, quella irrazionale era persa nelle parole del libro.
“ Ma che Beyteyl … quale suono orrendo! Rauchaheil, Rauchaheil! … questo è un bel suono: pulito, forte, netto, decisivo ed incisivo”. La mente dell’inquisitore seguitava sul rito di Marte mentre la donna officiava a Venere. Se solo la sua razionalità si fosse resa conto di cosa accadeva nell’altra parte della mente sarebbe fuggito lontano da quel luogo, terrorizzato!
– Ti prego per tutti i tuoi spiriti, Tu così veridica nei tuoi amori e nelle Tue amicizie e così bella e coerente nei sodalizi che determinano gli Amori e le congiunzioni, e guidando …. – la donna continuava ignara il suo rito.
“Amore? Sempre l’amore cercano, e pare vogliano, le donne” pensava in quel momento l’inquisitore “Qual cosa più inutile dell’amore? Qual suono orrendo e per nulla confrontabile alle mirabili parole rivolte a Marte: colui ch’è della stessa natura del fuoco, patrocinatore di guerre, rovina di uomini eccelsi, istigatore di furori, di ira e di tutte quelle cattive predisposizioni che devastano il cuore degli uomini, foriero di morte e di guerre fratricide, di rapporti incestuosi e di spargimento di sangue … semmai è questa la divinità che devi pregare o donna!”
Il Domenicano si scosse, risvegliandosi dal suo torpore mentale, e subito la ragione dimenticò la parentesi irrazionale per attivarsi sui reali motivi della sua presenza in quel bosco. Nello stesso istante Zoara fu raggiunta da una zaffata di fumo acre e soffocante proveniente dal braciere, insospettita da quell’odore inusuale verificò il colore della colonna di fumo contro la luce della luna e si preoccupò quando scopri che il solito verde era maculato di rosso. Subito fu presa dal timore di aver sbagliato la composizione delle polveri, ma rivendendo mentalmente le operazioni preliminare si rassicurò. Non riusciva quindi a spiegarsi quel colore e quel puzzo di morte che usciva dal turibolo.
Il pianeta era in posizione benevola quindi Zoara decise di portare in ogni caso a termine il rito, prese dalla pietra sulla quale l’aveva riposto il ciondolo che sarebbe divenuto il talismano per la giovane. Fatto con una pietra, che pareva quarzo ialino, recava incisa l’immagine di una donna nuda in piedi di fronte ad un fallo eretto di dimensioni enormi, almeno in proporzione a lei, sotto una mano sinistra, stilizzata, reggeva un pettine. Zoara ne tastò sensualmente la superficie scorrendola con il pollice poi, per valutarne meglio la levigatura, se lo portò alle labbra. Soddisfatta la impugno con ambe due le mani e la sollevò in alto rivolta verso il pianeta. Nel compiere questa operazione la veste salì lungo il suo corpo sin quasi a scoprire del tutto le gambe che lei teneva semi aperte.
Questo diede l’ultima scossa al Domenicano, la vista delle gambe nude sino ai glutei fece ribollire di rabbia il suo sangue.
– BASTA COSÌ! Adoratrice di satana!
Capitano faccia il suo dovere e arresti quella demonolatra.
– Si, magister.
Improvvisamente il cerchio di pietre fu invaso da armati che si avventarono sulla donna.
Il Domenicano uscì dal bosco e si avvicinò a lei con lo sguardo fiero di chi aveva appena sconfitto un nemico.
– Donna, – disse – la tua adorazione del demonio ti ha persa. Non solo lo adori senza timore ma trascini nella tua esecrabile nefandezza una giovane innocente, sfruttando le sue pene d’amore.
– Non sto adorando nessun demonio, prete! – lo interruppe lei – Lo sai benissimo. Tu mi accusi perché hai paura delle conoscenze che stanno alla base dei miei riti.
– Non è con le parole che salverai la tua anima, ma riabbracciando la vera fede … capitano portatela nel palazzo del Vescovo e lì rinchiudetela. Trattatela con riguardo, non è accusata di alcuna eresia, per ora, ma solo d’essere caduta in errore, quindi non c’è pericolo che infetti con le sue dottrine false altri bravi cristiani.
Andate ora …- li incitò l’inquisitore. Poi rivolto al giovane notaio al seguito disse: – Avete sentito signor De Roussan?
– Si, magister. La donna che si fa chiamare Zoara si è citata durante la sua infame preghiera al signore degli inferi. Chiaro segno della sua perversione…- tentò di imbastire un discorso il notaio.
– Signor De Roussan, non avete inteso niente dunque?
Quella donna stava pregando Venere e Zoara è uno dei nomi di quel pianeta. Precisamente il suo nome nella lingua degli infedeli.
Sappiate che ho riconosciuto chiaramente la provenienza di quelle parole. Esse derivano dal Fine del saggio, un libro blasfemo che tenta di riportare agli antichi splendori la false divinità dei greci e dei romani, altrimenti noto con il nome del suo traduttore dall’arabo: Picatrix.
Un testo condannato dalla Chiesa ma che continua a traviare i sedicenti filosofi che vedono in esso una comoda scorciatoia al sapere.
Quando Alfonso X, il Saggio, nello scorso secolo lo fece tradurre in lingua volgare, commise un gravissimo errore, di cui ancora oggi ne paghiamo le conseguenze … e chissà per quanto tempo ancora le pagheremo.
La donna che abbiamo arrestato stava pregando Venere, probabilmente per la buona riuscita di un talismano d’amore, confezionato per la giovane che era qui poco fa.
Ma perché perdo tempo a spiegarvi queste cose?
Al processo verrà fuori tutto. Spero solo, per l’anima di quella donna, che si ravveda e torni in seno alla Chiesa.
Andiamo, è stata una notte lunga e fredda!
L’inquisitore seguì il drappello sino al vecchio convento, trasformato dal Vescovo in sede inquisitoriale, per sincerarsi che la donna fosse trattata con il dovuto rispetto. Anche quello faceva parte dei suoi doveri: lui e i suoi colleghi non dovevano punire ciecamente il colpevole o il sospetto d’eresia ma convertirlo, ricondurlo nella vera fede; e per fare questo gli imputati dovevano essere in buona salute.
Rinchiusero la donna in quella che era stata una delle celle dei monaci, verificarono la chiusura della porta e raccomandarono alla guardia di portargli altre coperte e dell’acqua per lavarsi. Al domenicano non era sfuggita la macchia di sangue all’altezza del pube di lei e conosceva ciò che il libro richiedeva per quel rito che aveva interrotto.
Era sua intenzione lasciare la sospetta da sola, a meditare sulle sue colpe, per alcuni giorni prima di sottoporla all’interrogatorio. Prese mentalmente nota di procurarle degli abiti più casti prima di portarla di fronte ai suoi collaboratori; soprattutto al notaio, così giovane e schiavo dei suoi sensi, del tutto privo del controllo che lui, come i suoi fratelli, aveva acquisito negli anni del noviziato.
Finalmente giunse nella sua cella ai piani superiori, senza nemmeno accendere un lume recito velocemente e automaticamente le solite preghiere e si coricò dopo aver risposto lo scapolare sull’inginocchiatoio. Si addormentò immediatamente, come d’abitudine.
Zoara era rinchiusa da cinque giorni ormai quando sentì il rumore dei passi di più persone nel corridoio. La porta della sua cella si aprì mostrando la figura austera, nell’abito del suo ordine, dell’inquisitore.
– Alzati e non temere. – disse con tono falsamente dolce il frate. – Siamo qui per ascoltare la tua confessione di pentimento. Speriamo che le notti in questa cella, che ha visto tanti veri credenti nel passato, ti abbiano portato verso la luce della vera fede, avvicinandoti all’unico Dio!
– Io sono sempre stata e sono ancora una buona credente.
Chiedete a chi volete in paese. Chi mi conosce potrà testimoniarvi la mia fede. – si difese lei
– Dimentichi che ti abbiamo vista e sentita adorare il demonio poche notti fa?
– Non adoravo Satana e voi tutti lo sapete.
Applicavo nient’altro che i riti spiegati in quel libro scritto da uno che …
– Allora confessi la tua latria. – la interruppe lui.
– Sapete benissimo che quel libro è stato scritto da un infedele e che loro non credono nemmeno nei santi. Quindi non potrebbero ritenere i pianeti degli dei … ed è di questo che mi si accusa … o sbaglio?
– Sbagli. Il tuo errore sta nel non vedere il disegno del maligno dietro le parole di quel libro.
Inoltre non sai nemmeno che quel libro è ritenuto blasfemo anche dai mori.
Medita su questo, più tardi sarai condotta al cospetto dei teologi che studieranno il tuo caso, Saranno loro a decidere in cosa tu credi veramente.
Il domenicano uscì dalla sua stanza e lasciò entrare il giovane notaio che doveva occuparsi di compilare i documenti relativi alla sua identità.
Lei n’approfittò per affinare il suo piano atto a renderle la libertà. Notò con vero piacere l’interessamento del giovane verso il suo corpo. A giudicare da come la stava guardando capiva che, in quel momento, la immaginava senza vestiti. Maledì mentalmente la mancanza di uno specchio e di una quantità d’acqua adeguata a rendere decente il suo aspetto. In ogni caso era sufficientemente attraente per lui.
Si sedette, con dei movimenti sensuali, in netto contrasto con il suo aspetto, sull’asse che fungeva da letto e indicò al notaio la sedia posta di fronte al semplice scrittoio. Lui, dopo aver disposto le sue carte, si accomodò ed iniziò a studiare sfrontatamente la donna con uno sguardo che di “professionale” aveva ben poco. Non disse una parola mentre osservava le curve del suo corpo a malapena nascoste dalla tunica semi trasparente che indossava dalla notte del rito. Puntava sulla sua posizione di forza, sul suo potere per intimidirla, più che sul proprio carisma per spingerla a domandargli aiuto nella sua causa. In fondo, essere un notaio al servizio dell’inquisizione portava degli indubbi vantaggi.
Il suo sguardo si fece sempre più esplicito e spudorato; gli sembrò di intuire qualche segno di difficoltà da parte della donna. Bene, quello era il suo scopo. Metterla in condizioni di inferiorità e lasciar cadere dall’alto della sua posizione la sua benevolenza. Quella tattica gli aveva fruttato parecchi favori da parte delle indagate che gli erano capitate tra le mani. Si sentì incoraggiato a continuare nella sua intimidazione, sapeva che dopo il pianto disperato, confortato dalla sua finta dolcezza, la donna non sarebbe più riuscita a negargli niente; la promessa, che non avrebbe potuto mantenere, di un suo benevolo interessamento avrebbe smontato l’ultima barriera posta a difesa della femminilità. Il giovane aveva raggiunto la massima sicurezza di se insieme alla convinzione che, oramai, mancasse poco all’esplosione delle lacrime; quando, lei prendendolo in contropiede iniziò lentamente ad alzarsi, guardandolo fisso negli occhi. Si avvicinò a lui lasciando scendere lo sguardo sulla zona genitale dell’uomo messa in evidenza dai calzoni aderenti, sorrise maliziosa e divertita mentre lasciava che la tunica scivolasse giù da una spalla sino a scoprirle completamente il seno. Lui indietreggiò e lei gli si fece ancora più incontro offrendogli le labbra per un bacio.
Il giovane notaio iniziò a sentirsi meno sicuro di se, si aspettava una donna remissiva e disperata; non una che prendesse l’iniziativa. Tentò di riprendere il controllo della situazione minacciandola come ultimo tentativo di dimostrarsi superiore a lei.
Zoara gli si portò contro, appoggiandosi con tutto il corpo, sfiorandogli le labbra e accarezzandogli delicatamente la zona genitale. Sospirava invitante con la bocca socchiusa in attesa di un suo bacio. Lo stimolò con delle pressioni ritmiche del suo pube contro il membro.
Quest’ultima mossa terrorizzò del tutto il giovane che uscì di corsa dalla stanza. Ordinò alla guardia di richiudere la porta poi appena raggiunse un angolo isolato del lungo corridoio si lasciò scivolare seduto in terra con il respiro ancora affannato.
Nella sua cella, intanto, Zoara sorrideva soddisfatta. Aveva sconfitto l’arroganza di quel piccolo uomo troppo sicuro di se e della posizione che occupava. Non temeva possibili ritorsioni da parte sua, in realtà era troppo debole anche solo per pensare di farle. Sapeva che, superata la fase del terrore, lui sarebbe tornato per avere quello che le aveva appena promesso; allora sarebbe stato completamente nelle sue mani.
Tra le altre cose, Zoara, doveva trovare il modo di comunicare con la giovane donna per cui aveva preparato il talismano che stava attivando la notte in cui fu arrestata. Beatrice era venuta in possesso di quell’oggetto e lei doveva assolutamente spiegarle molte cose al riguardo, inoltre ricordava la stranezza del colore del fumo, poco prima dell’intervento degli uomini dell’inquisitore. Qualcosa non era andato per il verso giusto e doveva, quindi, prendere in mano quel talismano per accertarne la piena funzionalità e verificare l’eventuale presenza d’influssi diversi da quelli previsti dal rito. Zoara temeva che quel colore rossastro intravisto nel fumo fosse dovuto ad una negativa influenza di Marte. Aveva preso tutte le precauzioni per evitarlo, sapeva quanto il pianeta del signore della guerra fosse nefasto, ma un suo gesto, o una sua distrazione o, peggio, qualcuno lo aveva richiamato.
Era così presa dai suoi pensieri e non sentì la serratura della porta che veniva aperta.
Entrarono due armati e le intimarono di seguirli. Uno davanti e l’altro dietro la scortarono al piano superiore in una camera buia dove troneggiava un crocefisso di notevoli dimensioni. Dietro ad un tavolo massiccio stavano seduti alcuni religiosi con l’abito dei domenicani ed uno vestito in modo sontuoso e vistoso, certamente il vescovo.
L’inquisitore che era al centro si alzò in piedi e la invitò nuovamente a sconfessare il suo credo blasfemo. Le ricordò che era accusata di demonolatria, in quanto era stata sorpresa a rendere culto a dei demoni, chiamati con il nome di antiche e false divinità ma sempre demoni erano. Le ricordò anche che la pratica inquisitoriale sancita dal Directorium inquisitorum prevedeva in questo caso il trattamento riservato agli eretici. Quindi se non confessava il suo crimine e si pentiva sarebbe stata lasciata alle attenzioni del braccio secolare.
La donna non cedette alle minacce, anche perché non si riteneva colpevole di nulla. Resistette alle lusinghe e alle minacce sino a quando, spazientito, il domenicano disse:
– Basta, donna, tu sfidi la nostra intelligenza e la nostra pazienza. – l’aggredì verbalmente – Signor De Roussan metta a verbale che l’eretica è stata affidata al braccio secolare per la prima sezione di tortura.
Lei vigilerà sullo svolgimento, pronto a verbalizzare ogni sua parola …e ricordi: ecclesia abhorret a sanguine.
Non una goccia di sangue deve uscire dal corpo di quella donna!- detto questo si avviò verso l’uscita seguito dagli altri giudici.
– Sì Magister ricorderò, sarà mia cura vigilare. – lo rincorse con la voce il notaio.
Il riferimento al sangue e al corpo della donna generò delle sensazioni contrastanti nel giovane. L’attrazione che provava per lei iniziava a ledere il suo controllo, la reazione ai tentativi d’intimidirla ed alle sue attenzioni nella cella l’avevano, all’inizio, impaurito ma ora desiderava ripetere quell’esperienza. Gli era capitato raramente di avere tra le braccia una donna consenziente e vogliosa quanto lui.
Ordinò all’addetto di iniziare con i classici tratti di corda, quindi si sistemò comodamente sulla poltrona prima occupata dall’inquisitore poiché, da lì, poteva avere un’ottima visione della donna illuminata da un raggio di sole il quale, grazie ad una accurata disposizione delle pesanti tende, la colpiva in pieno.
L’aguzzino si portò dietro alla donna dimostrando chiaramente il suo disagio, non gli era mai capitato di sottoporre ai tratti di corda una donna così bella e dallo sguardo terribilmente innocente come il suo. Prese le sue mani, unendole prima di legarle ma fu interrotto dal richiamo del notaio:
– Non dietro, mastro Michael, ma davanti. Legatele le mani sul davanti! – ordinò il giovane.
Chiaramente sollevato dall’ordine il torturatore si affrettò ad ubbidire. Il supplizio consisteva nel sollevare il sospetto con la corda legata alle mani, se venivano legate dietro la schiena la tortura era molto dolorosa e portava, di norma, alla lussazione delle clavicole; mentre se venivano legate davanti al corpo il dolore era decisamente inferiore.
Sollevò la donna a pochi centimetri da terra tenendola in quella posizione.
De Roussan si alzò e aggirò il tavolo, si portò di fronte alla donna osservandola, con rinnovato coraggio, in quella posizione. La tunica, che oramai aveva perso il suo candore, non riusciva a mascherare la tonicità del suo corpo. Sospesa per le braccia metteva in mostra il suo splendido seno, la curva armoniosa dei fianchi e le gambe slanciate e sottili. Volendo si può dire che non rappresentava l’ideale femminile in voga ai suoi tempi, troppo magra e fianchi troppo stretti. Non sembrava una buona generatrice di bambini e il suo corpo asciutto ricordava più quello di un guerriero di quello d’una donna; ma il suo fascino e l’armonia delle curve del corpo la rendevano attraente agli occhi del giovane notaio, al quale ricordava le donne egiziane che aveva conosciuto nella cosmopolita Roma.
– La metta giù. Piano, ma … non lasci scendere le braccia. Le consenta d’appoggiare solo i piedi. – ordinò all’uomo che stava trattenendo la corda, poi rivolto più a lei che a lui aggiunse: – Non vogliamo che soffra troppo! … una donna così bella!
Le girò intorno, ispezionandola a fondo, poi si recò verso l’aguzzino e gli strappo la corda dalle mani; la legò ad un anello infisso nel muro in modo che lei non potesse abbassare le braccia poi indicò, silenziosamente, l’uscita all’uomo.
Quando fu solo tornò ad occuparsi di lei.
Si portò alle sue spalle chinandosi per riuscire ad osservarla da sotto la tunica.
– Sei una donna molto bella, sarebbe un vero peccato deturpare il tuo corpo con delle dolorose torture.
Se collabori saprò essere gentile con te e ti eviterò di soffrire, potrai mantenere intatta la tua bellezza e chissà? Magari, riuscirò a farti liberare.
Sai io ti credo, non sei un’eretica … tantomeno una maga!
Zoara non disse una parola in risposta, sentiva il suo sguardo che la stava spogliando, lo sentiva indugiare sulle natiche e gli piaceva. Paradossalmente essere legata in quella stanza buia, in completa balia di quel piccolo maniaco sessuale le procurava un crescente senso d’eccitazione.
Tentò, con successo, di riprendere il controllo. Non poteva permettersi di perderlo in quella situazione.
Sentì la mano di lui che seguiva la curva dei fianchi scendendo verso le natiche e soffermarsi su di esse. Spinse in fuori il sedere per consentirgli di godere della sua rotondità.
– Vedo che capisci, sei molto intelligente … collabora e non te ne pentirai. – le sussurrò in un orecchio lui.
Sicuro d’averla in suo potere gli si portò davanti, con le mani la esplorò lentamente in ogni parte del corpo. Lei chiuse gli occhi e lo lasciò fare. Lui intese la quella reazione come sintomo di paura nei suoi confronti e si eccitò, la sentiva in suo pieno potere.
Si allontanò da lei dirigendosi verso l’unica porta, sbarrandola; era tardi ma non voleva correre il rischio di essere disturbato o peggio scoperto dall’inquisitore, il quale non avrebbe esitato un istante a rinchiuderlo nelle segrete.
Prese uno stiletto e tornò da lei.
La sfidò con lo sguardo mostrandogli minaccioso l’arma, quindi fece scorrere la lama sulle curve del seno, dei fianchi e sul pube. Giocò a lungo in quel modo poi infilò la lama nella scollatura della tunica e, con un colpo secco, la tagliò sino in fondo scoprendo le sue nudità, le osservò a lungo soddisfatto, quindi rifinì con cura il suo lavoro lasciandola completamente nuda.
Infilata l’arma nella cintura ritornò a palparla, questa volta sulla pelle. Zoara non riuscì a contenere l’eccitazione e si lasciò sfuggire un lieve sospiro mentre chiudeva gli occhi per assaporare meglio le sensazioni della corda che le legava le mani, il leggero dolore alle braccia trattenute in alto e le mani ruvide dell’uomo che l’esploravano.
Come prima lui fraintese, lesse in quel sospiro la rassegnazione e negli occhi chiusi il tentativo di sfuggire alla realtà, la volontà di non vedere quello che le stava facendo. Alla stessa maniera valutò il suo gemito quando gli infilò un dito nella vagina, spingendolo più in fondo che poteva; ma si sbagliava: lei stava godendo di quelle attenzioni così come si godette il freddo contatto dello stiletto sui suoi capezzoli.
Lui faceva scorrere la lama di piatto sul corpo della donna seguendone la curve, premendogli i capezzoli e arruffandogli i peli del pube.
Stufo di quel gioco ruotò la lama di taglio, graffiandole la pelle. Lei riaprì gli occhi a quel nuovo ed intenso stimolo. Gli piaceva e le si dilatarono le pupille, lui che la stava osservando continuò e immaginando di vedere la paura in quei occhi si eccitò ulteriormente. Seguì il bordo del seno poi si divertì a far scorrere il taglio della lama leggero sui capezzoli ormai turgidi.
Zoara era quasi al limite dell’autocontrollo, godeva dei quelle sensazioni e sperava che lui si decidesse a iniziare qualcosa di più serio.
Inebriato dalla sensazione di potere su di lei, il giovane fece scorrere la lama verso il bacino. Mentre scendeva premeva sempre di più e iniziava a disegnare sul suo corpo una serie di sottili tracce arrossate.
– Potrei spingere solo un po’ di più e infilerei la lama nel tuo bellissimo ventre … ma penso di divertirmi di più ad infilarci altro! – gli confidò con la voce rotta dall’eccitazione.
Dopo avergli confessato le sue fantasie premette la lama contro il basso ventre, al limite della resistenza della pelle, mentre con l’altra mano violava la sua vagina.
Quella penetrazione, il dolore della lama premuta contro la pelle e la reale sensazione di pericolo, in quanto non conosceva le sue intenzioni, fecero godere Zoara. Rantolò e iniziò una serie di movimenti incontrollati del pube. Questo la portò a spingere verso la lama e a ferirsi lievemente.
Il netto dolore e la vista del suo sangue la fecero quasi venire. Quel sangue invece sconvolse lui. Per quanto lieve e minima la ferita aveva violato il principale veto imposto dalla chiesa sulle torture.
Il giovane notaio si affretto a scusarsi, posò lo stiletto e slegò la corda lasciando scendere le braccia della donna.
Lei si accucciò sulle ginocchia e aspettò che lui gli si avvicinasse. Con la testa bassa e lo sguardo in direzione del pavimento, pareva sottomessa e timorosa dei possibili sviluppi; in realtà si stava godendo gli ultimi rimasugli della forte eccitazione che aveva raggiunto. Inspirava a fondo gonfiando il seno e rilasciava lentamente il respiro mentre lui gli si faceva sempre più vicino.
Il giovane si fermò a pochi passi da lei. La osservò nei dettagli del suo bellissimo corpo, si tranquillizzò notando che la ferita non stillava più sangue e tornò ad eccitarsi grazie alla presunta sottomissione di lei. Riacquistata la sua spavalderia prese il suo viso da sotto il mento e lo sollevò sino ad incrociarne lo sguardo.
Lei non poté fare a meno di notare il rigonfiamento eloquente nella zona genitale dell’uomo e si sentì attratta dal membro che veniva disegnato dal tessuto aderente dei calzoni. Alzò le mani ancora legate nella sua direzione con l’intento di farsele slegare, ma lui si rifiutò. Allora lei sorrise e le appoggiò sul legaccio che tratteneva i calzoni. Con mille difficoltà iniziò a liberarli studiando al contempo la sua espressione che andava mutando dalla sicura spavalderia allo stupore. Come riuscì ad estrarne il membro lo brandì portandoselo davanti alle labbra e iniziò a leccalo dolcemente. Sentiva la sua erezione crescere sempre di più in consistenza e lo ingoiò, aspirando forte mentre con la lingua giocava sul glande. Continuò sino a sentirlo rantolare di piacere ed a percepire il sapore dei suoi umori lubrificanti. Allontanò la bocca da lui e, sfidandone lo sguardo prepotente, reclinò la schiena all’indietro, quasi sino a terra; appoggiata sulle ginocchia con la gambe aperte offriva in questo modo il suo ventre ai desideri del giovane.
A lui girò forte la testa mentre apprezzava con gli occhi e con la mente quel corpo offertogli in maniera così spudorata, le mani legate gli davano inoltre la sensazione di avere il controllo totale di lei. Si sfilò i calzoni e s’inginocchiò pronto ad infilarsi nella sua vagina ma lei si rialzò con un colpo di reni formidabile, appoggiando le mani sul busto lo spinse giù salendogli a cavallo. Prese il membro mentre si sistemava bene su di lui e se lo appoggiò contro la vagina; lo accolse dentro di sé senza difficoltà, scendendo piano sino a farsi penetrare completamente e iniziò a muoversi ansimando con un’espressione decisa sul volto.
Il giovane De Roussan si ritrovò all’improvviso a passare da una posizione di dominio sulla donna a una in completa balia dei suoi desideri, sentì la sua sicurezza cedere al pari della sua eccitazione.
Lei invece sentì quel membro, prima possente e minaccioso, sgonfiarsi dentro di lei. Non si preoccupò di questo, se lo aspettava e ci contava. Restò in quella posizione contraendo solo i muscoli del pube e gli disse:
– Rilassati, lasciati andare … scoprirai che fare l’amore con una donna che lo desidera è molto più appagante che possederla con la forza … coraggio, non pensare e ascolta solo quello che sale dal tuo inguine!
Confortata dall’espressione stupita ma intelligente di lui continuò a muoversi lenta e sensuale.
Poco alla volta sentì il suo membro tornare duro e piacevole, allora si concesse dei movimenti sempre più decisi e mirati al raggiungimento del piacere.
Nella mente di Zoara si miscelavano fra di loro una quantità di pensieri e sensazioni. Sentiva ancora la lama dello stiletto che graffiava la sua pelle, il dolore alle braccia legate in alto e la sensazione di paura provata quando ancora non aveva imparato a conoscere colui che ora stava sotto di lei.
Si eccitò ancora di più!
Le mani ancora legate non le permettevano i movimenti che voleva quindi si lasciò andare, senza tentare nulla di particolare, nessun movimento più intenso di quelli che riusciva a mettere in atto ma ascoltando con attenzione quello che saliva dal suo ventre.
Venne con un forte gemito, si appoggiò con le mani unite al busto del giovane e lo cavalcò più forte che poteva sino alla fine del suo piacere.
Lui, oltre che ottimamente dotato era anche molto resistente, forse grazie alla persa eccitazione poi ritrovata che lo aveva fatto ripartire dall’inizio, riuscì a mantenere il membro rigido dentro di lei senza venire.
Soddisfatta e distrutta, Zoara, si accasciò sopra di lui. Solo i suoi leggeri colpi di tosse emessi per richiamare la sua attenzione la ridestarono. Si staccò da lui, gemendo mentre lo sentiva uscire, scivolò indietro portando il viso sopra il pene con l’intenzione di svuotargli i testicoli con la bocca ma era troppo scomoda. Decise di sdraiarsi sulla fredda pietra del pavimento, lo invito a salire a cavallo del suo seno e gli ingoiò il pene stesa sotto di lui. Lo leccò e lo succhiò sino a portarlo all’orgasmo tanto sospirato, accolse sul viso e nella bocca i fiotti di sperma eccitando ancora di più il suo nuovo amante.
Sentiva che oramai il giovane era in suo potere, una volta provato il piacere di giacere con una donna come lei non avrebbe più avuto la forza di negarle niente. Non solo; il fatto che lei era stata in grado di resistere alle sue pressioni, godendo delle sue torture, gli aveva dimostrato la sua forza. Abilmente spinse il giovane ad aiutarla nel contattare Beatrice, non gli chiese di aiutarla nel processo, sapeva che in qualche modo ne sarebbe uscita bene; ma doveva comunicare con quella ragazza.
La stessa notte, l’inquisitore meditava nella sua cella. Stranamente e contrariamente alle sue abitudini faticava a prendere sonno. Il pensiero andava sempre a quella giovane donna, al suo corpo così esile ed apparentemente innocente ma, al tempo stesso, così invitante e seducente. Pensava alla grande forza dimostrata ed alla sua evidente intelligenza. Sapeva quanto pericolosa fosse quest’ultima dote unita all’avvenenza di una donna. Si domandava se non fosse proprio il disturbo apportato da quella donna al suo autocontrollo a spingerlo contro di lei. In fondo la donna non aveva colpa se lui non era stato in grado d’evitare di guardare il suo corpo con concupiscenza, se la sua mente l’aveva attratto e distratto.
Una donna non può essere dichiarata colpevole di un crimine solo perché il maligno si è divertito a fare del suo corpo una fonte di turbamento. Un uomo di Chiesa, un uomo forte, un uomo razionale come lui sapeva e poteva resistere a quelle lusinghe.
Allora perché si ritrovava a quell’ora della notte, quando ormai mancava poco al mattutino, con la mente occupata a pensare a lei e a sentire una strana forma di preoccupazione per l’esito del processo?
Turbato e, ormai, sfinito dalle troppe ore di veglia tentò di spostare i suoi pensieri sulla preghiera, un espediente che sempre lo aveva aiutato a ritrovare la serenità interiore e la pace dell’animo che tanto anelava. Iniziò a recitare meccanicamente quelle parole di fede che lo accompagnavano ormai dall’adolescenza. Con esse ritrovò la pace poiché la mente non seguiva più quei pensieri inquietanti, lentamente la stanchezza prese il controllo e si abbandonò al tanto sospirato sonno. La mente perse il controllo razionale dei pensieri come un una anticipata fase onirica, nulla quindi le poté impedire di trasformare la sequenza di parole della preghiera in una sequenza di nomi: “Dayabeduz, Heyaydez, Handabuz, Maharaz, Ardauz, Deheydemiz ….”. L’uomo, l’inquisitore, non poté accorgersi di quanto fosse stato irrazionalmente influenzato da quel libro che tanto razionalmente combatteva.
Il processo si risolse come lei aveva previsto. Interrogata dai dottori della fede, Zoara, era risultata perfettamente ortodossa, la sua fede non aveva sbavature di sorta, anzi i dotti si stupirono non poco nel trovare una donna laica così edotta negli articoli di fede. Restava il fatto che lei aveva pregato e offerto doni a quelli che la chiesa riteneva aspetti del demonio.
Zoara se la cavò, con gran disappunto dell’inquisitore, affermando la sua totale buona fede e l’ignoranza sul fatto che il Picatrix fosse ritenuto un libro empio. Si lasciò convincere dei suoi errori e li abiurò. Oltre al libro empio aveva anche letto, con profitto, il Directorium inquisitorum e sapeva come comportarsi di fronte al tribunale. A giorni era prevista la sentenza, a detta del giovane notaio era sarebbe stata condannata ad un breve periodo di pubblica penitenza: avrebbe, con tutta probabilità, dovuto indossare l’abito dei penitenti e assistere a tutte le funzioni religiose più importanti in modo da essere vista dai fedeli.
Niente di così grave come sembrava all’inizio. Grazie alla sua intelligenza Zoara aveva capito quando non era più il caso di insistere con la tesi iniziale. Ora rimaneva il problema del talismano ancora in mano a Beatrice.
– Fra poco uscirò da qui, sarò una penitente ma il tribunale non menzionerà la mia colpa, non pretenderà un’abiura pubblica.
Che progetti hai tu? – chiese la donna al giovane De Roussan.
– L’inquisizione mi ha confermato qui ad Albì, sono soddisfatti del mio lavoro e pare che ci sia in giro ancora qualche focolaio d’eresia albigese … ci sarà molto lavoro!
Il magister tornerà a Carcassonne, nella sua sede, questi focolai non sono così importanti da richiedere la sua presenza qui. – rispose con noncuranza lui.
– Bene! Lo sai che quando non tenti d’essere diverso da quello che sei e lasci che la tua dolcezza e sensibilità escano fuori non sei tanto male?
Lui arrossì senza rispondere alla velata proposta della donna. La sua fantasia già veleggiava verso i focosi incontri che avrebbe avuto con lei una volta libera. Lontano dagli occhi dell’inquisitore poteva muoversi come meglio credeva, lui non avrebbe approvato una sua relazione con un’eretica confessa.
– Devi farmi un favore … che ti ricambierò come tu speri!
Trova quella ragazza che era con me la notte che mi arrestarono e fatti consegnare assolutamente il talismano che le ho dato.
– Perché me lo chiedi?
– Perché l’opera non era completa, quell’oggetto può diventare pericoloso in mani sbagliate!
– Ma tu hai abiurato il tuo errore! – affermò il giovane con aria smarrita.
– Ho abiurato l’errore che credevano avessi commesso, non ho mai negato il reale potere di quei riti. Come avrai notato nemmeno il tuo magister mi ha chiesto di farlo … lui sa, lui conosce i potere delle formule del Picatrix, per questo lo combatte con tutte le sue forze.
E’ un uomo molto intelligente … ma poco saggio!
Trova quella donna!
– E se non vorrà consegnarmelo?
– Distruggilo!
Il giovane scoprì che la ragazza, terrorizzata dall’arresto di Zoara, si era data alla fuga nel timore che l’inquisizione si rivolgesse a lei non come una povera vittima delle false promesse della presunta maga ma come ad una complice.
Partì sulle sue tracce, scoprì che si era fermata a Castres da alcuni amici di famiglia quindi aveva proseguito per Béziers. La raggiunse prima di Nimes, a Ganges!
Ci volle del tempo per convincerla, non voleva mollare l’ultimo baluardo cui si aggrappava la speranza di rivedere presto il suo amato. Poi quando seppe che Zoara era uscita bene dal processo si convinse che era una vera maga e credette alla parole del notaio sulla pericolosità dell’amuleto incompleto e lo consegnò a lui.
De Roussan contemplò l’oggetto, si rigirò la pietra tra le mani e mentre cavalcava sulla via del ritorno gia pregustava il suo prossimo incontro con la donna che lo aveva spedito sino lì. Non voleva tornare in città, nel palazzo dell’inquisizione in possesso di quel talismano. Non che credesse al suo ipotetico potere, ma il solo fatto di averlo con se gli procurava un vago senso di disagio, come se un qualcosa di negativo, maligno, pregnasse la pietra impenetrabile di cui era composto.
In fondo aveva promesso a Zoara di riportarglielo o distruggerlo.
Si trovava sul piccolo monte che sovrasta il paese di Ganges, nei pressi di una voragine da cui i locali lo avevano avvertito di tenersi alla larga. Con un largo gesto della mano, quasi plateale lanciò la pietra dentro quel buco che si apriva nel terreno, poi spronò la cavalcatura e galoppò verso casa.
Quella voragine era l’ingresso delle grotte delle Demoiselles, una cavità naturale penetrava nel profondo della terra. Il giovane non poté osservare il talismano rompersi sulle rocce e né sentì il rumore del suo precipitare in acqua. Affondando nel piccolo rigagnolo che scorreva in fondo, la pietra emise un vago bagliore prima di adagiarsi sul fondo finendo nella fenditura tra due massi erosi. Lì era destinato a rimanere per l’eternità, o sin quando, una piena improvvisa, lo avesse smosso riportandolo alla luce.