C’est la vie

Oggi non è che abbia molto da fare. La vita di un assistente universitario ha di questi tempi morti, lassi oziosi di tempo che nulla hanno da invidiare a quelli di qualsiasi altra attività parassitaria. È deprimente, lo so…essere una specie di portaborse, sciacquino, zerbino o come altro mi si può qualificare non è certo gratificante, ma qualche piccolo vantaggio lo si può rosicchiare, sempre se ci si accontenta del poco. Ad ogni modo, me ne sto sbracato dietro la scrivania del professore. Sfoglio senza interesse una rivista che parla di letteratura medioevale. Chi deve parlare col professore viene alla spicciolata e per lo più chiede informazioni sul programma o, se è stato segato all’esame, vorrebbe qualche dritta sugli argomenti da approfondire o roba del genere. Io faccio il mio dovere, cercando di essere quanto più professionale possibile.

Rispondo compito e rassicurante e non lesino in incoraggiamenti e in “in bocca al lupo”. “Arrivederci professore”, “Grazie mille, professore”…dio, e come odio essere chiamato professore. A parte che non lo sono affatto un professore, ma poi quel titolo m’istituzionalizza in una maniera che non mi piace affatto. Cazzo, in fin dei conti sono un nullatenente, una “professione” di moda ultimamente. L’unico aspetto positivo è che le ragazze ti ronzano attorno come le api su una corolla rorida d’effluvi. E c’è da dire una cosa: le ragazze in estate son tutte belle! È un gioco delle parti, a ben vedere. Occhieggiano, mettono in evidenza seni e fianchi, si concedono una passerella quando si siedono sulla sedia di fronte a me, dimenando le loro natiche fresche e sode a destra e a manca, e cominciano: “Professore, vorrei chiederLe…”.

Capisci? Anche il lei mi danno. Ma fa parte del gioco, lo so, così mi adeguo. Mi aggiusto gli occhiali sul naso, tocco qualche foglietto sulla scrivania, giocherello con la stilografica modello Churchil tra le dita e dico: “Mi dica, signorina…”. E così la cosa va avanti. Loro espongono i loro quesiti con quel tono di voce basso, caldo, molto molto sensuale, gesticolando lente, aggiustandosi l’orlo della camicetta o giochicchiando con le sottili bretelline dei top, magnificamente aderenti. Questa la loro parte. E la mia, di parte intendo, non è che sia semplice. L’ho detto, non sono un professore, quindi la mia professionalità è arrabattata e anche male. Faccio uno sforzo enorme per trattenere lo sguardo che istintivamente è portato a scivolare lì in mezzo, in quei solchi di seni in gran parte lasciati ad abbronzare al sole d’inizio giugno, per riempirsi di quelle rotonde porzioni di carne. No, no…non ho affatto professionalità in questo lavoro.

Ho gli ormoni che schizzano all’impazzata, come palline del flipper, e puntualmente, come si siede una studentessa su quella benedetta sedia, l’indice di gradimento che ho tra le gambe ha un’impennata notevole, costringendomi ad imbarazzanti tentativi per non uscire dall’area sottostante alla scrivania. Ma il gioco è chiaro, è letto e fin troppo noto ad entrambe le parti. E più loro gettano l’amo e più io abbocco, come il più allocco dei pesci. Tra dieci giorni ci sarà l’appello di giugno, quindi una nuova tornata di esami. Tutte queste ragazze dovranno passare dal sottoscritto, prima di fare la parte monografica col professore, e ci tengono a presentarsi, a mostrarsi studiose e volenterose. E così vengono allo studiolo in processione, come monacande zelanti. Ed io lì, ad aspettarle a braccia aperte…Il gioco è tutto in quella corrispondenza di sguardi e ammiccate esplicite, ma solitamente il tutto rimane in una sfera, come dire, platonica. Solitamente, ma non sempre.

Il mese scorso, ad esempio, Yole, una ragazzina minuta e flessuosa come una danzatrice, ha la pazienza di aspettare fino alla chiusura del dipartimento. Era pomeriggio inoltrato ed io stavo trafficando con la serratura dello studiolo, pronto per chiudere tutto e filare via da quel posto, allorché: “Scusi, professore…”. C’incamminiamo per il corridoio, mentre lei mi dice che è una studentessa di storia, che lavora e che non ha avuto molto tempo per studiare, ecc. ecc. Arriviamo all’ascensore, pigio il pulsante di chiamata e le chiedo che lavoro fa, mostrandomi sinceramente ammirato per la sua condizione di studentessa lavoratrice. Entriamo in ascensore e quando le porte si richiudono, lei mi dice che lavora in un night a Posillipo, dove fa la cubista o la cameriera a seconda delle serate organizzate. Fuori dall’Università, ci fermiamo in uno snack-bar a prenderci qualcosa. Ovviamente, la discussione dallo studio si è spostata su altri argomenti e alla fine lei mi dice se voglio fare un salto a casa sua: le sue amiche sono tornate dalle loro famiglie per il week-end e lei è da sola, con un po’ d’erba da fumare. Come fare a dirle di no?

I suoi occhi erano grandi, immensi e neri come due perle. Io, da parte mia, ho cercato di rimanere in equilibrio sull’orlo di quelle ciglia, ma senza accorgermene sono precipitato giù in quello sguardo oceanico, e lì il “naufragar m’è dolce”. La seguo come un cagnolino, dunque. Entriamo nel portone e prendiamo le scale. Lei avanti ed io dietro. Mentre sale, le guardo le gambe già abbronzate e nude. La gonna, di quelle aderenti che evidenziano un culetto alla Fidia, ricopre quelle gambe fino a metà coscia, lasciando il resto al mio sguardo, fino ai piedi infilati in scarpe leggere col tacco in sughero. Sopra ha uno di quei top accollati avanti e intrecciati con nastrini sulla schiena, così che siano visibili spicchi di pelle romboidali. Una volta dentro casa, mandiamo giù un boccone d’insalata russa che le era rimasta nel frigo, innaffiandola con del Chianti non male.

Poi mi fa accomodare sul divano, mentre lei va di là a prendere l’erba e tutto l’occorrente. Quando ritorna in salotto, non ha più né la gonna né il top né le scarpe, ma indossa una camicia da uomo che le arriva due dita sotto l’inguine e che tiene accuratamente abbottonata dal terzo bottone, così che siano più che visibili i morbidi profili del suo piccolo seno. Si siede sul divano ad un metro da me ed incrocia le gambe, lentamente, in modo che il sottoscritto abbia tutto il tempo di godersi quel poetico piegarsi ed incrociarsi di gambe, che svelano e coprono la visione di un paio di mutandine rosse. Be’, devo essere sincero, quel fotogramma era veramente qualcosa di eccezionale, di rara bellezza: mutandine rosso fuoco, trasparenti sul davanti, quel tanto necessario ad incorniciare una macchia di pelo nero, folto e riccio come una manciata di lana grezza. L’effetto è immediato.

Mi concentro sul vino, guardandomi attorno piuttosto imbarazzato, puntando la mia attenzione sugli oggetti, mentre lei, tranquilla e completamente padrona di sé, traffica con erba, cartine e filtri. Cerco di non guardarla e mi vengono fuori cose del tipo:

“Belli questi quadri! Li hai fatti tu?”.

“Sì”, fa lei, “ti piacciono?”.

“Sì”, rispondo, e via un altro bel sorso di vino.

Ce n’è uno tutto rosso, con nel mezzo due curve nere unite agli estremi.

“Quello, ad esempio”, fa lei, alludendo con un gesto del mento proprio al quadro che sto osservando, “è quello che mi piace di più: è una vagina”.

Il sorso di vino mi va un po’ di traverso, lei fa una pausa piuttosto studiata, al termine della quale dice:

“A te piace?”.

Il suo tono è chiaramente allusivo, così che io non so se intende il quadro o la vagina. Ad ogni modo, mi affretto a dire “Certo, certo…”.

“Mi fa molto piacere”, dice accendendo lo spinello e mandando giù un bel sorso di fumo. Nuvolette azzurre si levano molli e sensuali e la stanza si riempie dell’odore corposo dell’erba. È roba buona, la riconosco dall’odore. Mi passa la canna e a questo punto devo necessariamente girarmi e guardarla.

Gli occhi le si sono lievemente arrossati e adesso brillano come due stelle. Si abbandona mollemente sul bracciolo del divano e prende a stiracchiarsi, allungando le gambe che, inevitabilmente, finiscono con lo stendersi del tutto sulla mia coscia sinistra. Accavalla le caviglie e mi fissa sorridendo, incrociando le braccia dietro la nuca. Nel movimento la camicia le sale su un bel po’, scoprendo il triangolo rosso delle mutandine. Colpito ed affondato. Sono più impacciato che mai. Nella mano sinistra ho la canna, in quella destra il bicchiere di vino. Non so cosa fare e la situazione mi è sfuggita di mano. È la sua calma e la sicurezza ostentata in ogni suo atto a spiazzarmi totalmente. È troppo padrona di sé, ed io troppo poco cosciente della mia percezione. È sempre così, diavolo! Sono sempre maledettamente preda del dio Caso e dei suoi stramaledetti tranelli.

C’est la vie…son fatto così! E, infatti, mi sono versato addosso un po’ di vino quando, nel passarle la canna, lei si è leggermente protesa verso di me, accarezzandomi la coscia con la pianta del piede destro. In quel momento, una fitta di piacere raggiunge dritta il centro dell’inguine, con ovvie conseguenze. Intanto si parla del più e del meno. Comincio un po’ a rilassarmi, poi, quando smorzo nel posacenere il cartoncino del filtro mezzo bruciacchiato, lei si stiracchia come un felino, allungando braccia e gambe e inarcando contemporaneamente la schiena, in un “Aaaah…” di soddisfazione e godimento. Puoi immaginare che nel frattempo la mia concentrazione è tutta per il bordo estremo della camicia, che nel movimento delle braccia le risale su, passando le mutandine rosse, su su, fin sopra l’ombelico completo di piercing, a sud-ovest del quale c’è un rettile (almeno così mi sembra) tatuato.

Non c’è più spazio per le parole, ormai, e Yole manda il suo piede in avanscoperta, a saggiare un po’ com’è la situazione dalle mie parti. Un piede piccolo, leggero, dalle unghie smaltate di bianco avorio, con un anellino dorato al secondo dito. Trattengo il fiato e mi irrigidisco visibilmente, come se a strisciarmi sulla coscia e a risalire sulla patta sia non un piede, ma un serpente biforcuto e velenoso. Lei non sorride più, ma ha gli occhi puntati sul suo piede, come se ne telecomandasse il movimento con lo sguardo, e si mordicchia il labbro inferiore, nel classico atto di chi è particolarmente preso da qualcosa di impegnativo. Lentamente mi giro sul fianco sinistro, poggiando la schiena sul bracciolo, favorendo così l’avanzata dell’altro piedino.

Scolo il Chianti rimasto nel bicchiere, mentre i piedi di Yole hanno stretto tra le piante la mia erezione. Comincia a muoverli su e giù, su e giù. Nonostante la protezione dei pantaloni e delle mutande, gli effetti di quell’operazione non tardano a manifestarsi e sto sul punto di venire, se lei non avesse smesso. Il pericolo è evitato appena in tempo, perché Yole ritira le gambe e contemporaneamente si sfila dall’alto la camicia, scoprendo due seni piccoli, sodi e all’insù, come un paio di mele annurche. I capezzoli sono decisamente grossi rispetto al resto, con un’aureola molto scura, e le punte turgide puntano dritte alla mia eccitazione. Con un balzo da ghepardo è sopra di me. Le nostre lingue si conoscono e si piacciono immediatamente, tra risucchi forti come scrosci di pioggia, mentre le sue mani esperte prendono a trafficare con la cinta e la zip. In men che non si dica, rotoliamo sulla moquette verde prato, nudi e attorcigliati come in una lotta greco romana, fin quando non fui io sotto e lei sopra, i miei fianchi stretti tra le sue cosce.

Prende a muoversi, mentre io le stropiccio i capezzoli e mi colmo i palmi di quella carne soda, rotonda come i fondi delle coppe di champagne. Mi viene in mente che sono senza preservativo. Ne ho uno nella tasca dei calzoni e faccio per alzarmi, ma lei, come se mi avesse letto nel pensiero, dice:

“Non preoccuparti, ho preso le mie precauzioni”.

“Non è solo per quello”, provo ad obiettare.

“Sono sana come un pesce”, mi fa risentita, “Vuoi vedere le ultime analisi?”.

“Be’, potrei non esserlo io…”.

“Rischierò…sono grande e vaccinata, sai?”, e prende a muoversi con più foga.

La nostra contrattazione finisce qui. Succhio con avidità un capezzolo, mentre lei mi cavalca come una cavallerizza, emettendo gridolini di piacere. Dopo una leggera impasse iniziale, adesso sto benissimo, come dire vado forte, consapevole del mio corpo e dei miei limiti. Yole ci sa fare, ma davvero. Cambia di continuo il ritmo, cercando la mia lingua, puntando il mio sguardo per leggermi, per cogliere eventuali segni di cedimento. Entrambi vogliamo che duri il più possibile, e nessuno dei due vuole soccombere all’altro. È così leggera, che il suo corpo si presta agevolmente a qualunque tipo di giochetto e di esercizio ginnico. Pianto saldamente i palmi e le piante dei piedi sulla moquette e mi tiro su, nel più classico dei ponti. Con colpi di bacino assecondo e contrasto i suoi slanci: lo stropicciarsi dei nostri sessi è incredibile.

“Aaah…e che porco che sei…mmm…mi piace….sssììì”, mi grida, inarcando la schiena e piantandomi le unghie nei quadricipiti.

Si muove come un’ossessa ed io comincio a sentire un po’ di stanchezza nelle braccia e nelle gambe. Mi rimetto a sedere, col culo per terra e le gambe incrociate, nella posizione del loto insomma. Decido di dar fondo alle ultime energie prima dell’orgasmo che sento montare su dal fondo delle viscere. Mi concentro ed oplà, con un colpo di reni e di gambe sono in piedi, le gambe di Yole allacciate al mio tronco e le sue unghie a rigarmi la schiena. Il bello della sua leggerezza è che permette roba di questo genere. Certo, occorre anche che chi sopporta il peso abbia le gambe giuste.

Ad ogni modo, ce ne andiamo per la stanza in questo modo qua, avanzando tra i grugniti e le grida di piacere che stanno per esplodere. Sento l’uccello gonfiarsi a dismisura dentro di lei e in questa posizione eretta lei può sentirlo tutto. Ovviamente tutte reazioni fisiche che lei non omette di gridarmi, incitandomi, pregandomi di affrettare i tempi, ché è lì lì per venire. Be’, la verità è che non aspetto altro. Sto per esplodere anch’io. Un posacenere e una lampada a stelo cadono vittime della nostra danza selvaggia, fin quando non urtiamo il tavolo e Yole vi rovina sopra, rovesciando il fiasco di Chianti semivuoto che va a frantumare un piatto. Appoggia l’incavo delle gambe, quella tenera concavità dietro al ginocchio, sulle mie spalle, in modo che il culo le si alzi dal tavolo, agevolando così l’ultima penetrazione. M’immergo ancora una volta in quella calda fornace.

Il pene viene immediatamente inghiottito, da come è lubrificata quella zona, mentre lei mi grida il suo orgasmo. Riesco a dare altri due o tre colpi, prima di raggiungerla rantolando in quella sublime ed infinita porzione di paradiso, che ogni tanto ci spetta.

“Tra un po’ dovrai sloggiare”, mi fa Yole passandomi metà Winston.

“Perché”, le rispondo visibilmente deluso, “pensavo che saremmo potuti uscire per una pizza e un cinema, che so…una cosa così, insomma”.

“No no, non si può. Tra poco sarà qui il mio boy e non credo che avrà piacere nel non trovarmi a casa”.

“Ah, capisco”.

“Ci sei rimasto male?”

“Be’, insomma…”

“Ehi, non sarai mica di quei tipi che si legano con una scopata?”

“Naa”.

“Ah, bene…meno male. Meglio così”.

Si alza dal letto e si dirige verso il bagno. Comincio a raccogliere la mia roba sparsa un po’ ovunque.

“Vado a farmi una doccia. Puoi farmi un piacere? Sempre se non ti scoccia…”

“Dimmi”.

“Potresti svuotare le cicche e i resti degli spinelli nella pattumiera e portartela giù con te? Se Damiano li vede si fa attaccare per pazzo”.

“Cos’è, della narcotici?”, butto lì un po’ seccato.

“Non so di preciso di cosa si occupa, comunque è un carabiniere”.

“Bleah”, faccio disgustato, “e com’è che stai con un tipo così? Voglio dire, non mi sembri una che..”

“Ehi, saranno cazzi miei, no?”, m’interrompe brusca, sbattendosi dietro le spalle la porta del bagno.

Qualche istante dopo sento lo scroscio d’acqua della doccia. Mi rivesto, svuoto il posacenere nella busta dell’immondizia e la chiudo per benino. Do una voce a Yole, dicendole che me ne sto scendendo, ma credo che non mi senta da sotto l’acqua, quindi mi dirigo verso l’uscita. Apro la porta, ma vengo preso da un ripensamento. Richiudo, mi frugo nelle tasche, scovo un pezzo di carta e un mozzicone di lapis. Scribacchio una mezza dozzina di domande sull’esame di letteratura italiana. Piego il foglietto e lo ripongo in vista sul comodino nella camera da letto, tra la foto incorniciata di Kurt Cobain e l’abat-jour. Giro sui tacchi, esco e prendo le scale. All’ultima rampa incrocio un marcantonio in divisa. Lo saluto portandomi la mano tesa alla tempia. Lui ricambia il saluto con un cenno del capo e una smorfia di disprezzo.

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